Don Minzoni, sentinella del mattino

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quest’anno ricorre il Centenario del martirio

di don Giovanni Minzoni (23 agosto 1923-2023)definito recentemente, insieme a don Lorenzo Milani, don Tonino Bello e don Pino Puglisi, uno dei «quattro evangelisti della Chiesa italiana del Novecento» (Daniele Menozzi). “Don Minzoni è stato ucciso dalla violenza fascista e dalle complicità pavide di chi non la contrastò. Fascismo, che assume colori diversi, sistemi e burocrazie di ogni totalitarismo e diversi apparati, significa il disprezzo dell’altro e del diverso, l’intolleranza, il pregiudizio che annienta il nemico, il razzismo raffinato o rozzo che sia, la violenza fisica che inizia sempre in quella verbale e nell’incapacità a dialogare con chi la pensa diversamente”. A usare queste parole per descrivere il fascismo è il cardinale Matteo Zuppi – arcivescovo di Bologna e presidente della Cei – durante la messa ad Argenta (Ferrara) nel centenario del martirio di don Giovanni Minzoni. “Minzoni lo affrontò senza compromessi, opportunismi, convenienze. Per questo era e rimane una sentinella del mattino che nella notte continua a farci credere nella luce”.

Nell’Osservatore Romano di 23 agosto 2023 leggiamo:

«Antifascista, gemello di Giacomo Matteotti, martire della libertà, prete che disse no ai fascisti, vittima della dittatura, testimone di coraggio e fedeltà ai valori di libertà e giustizia, martire del fascismo che sacrificò la sua vita per non aver voluto mettersi in riga e aver fondato una squadra di scout considerati dal regime antitetici ai Balilla…sono davvero tante e storicamente pertinenti le definizioni formulate da storici, giornalisti e rappresentanti delle istituzioni laiche per comprendere l’indubbio spessore sociale e politico dell’azione pastorale di don Minzoni e l’inequivocabile presa di coscienza e di posizione a favore degli ideali democratici e di giustizia contro il rischio della dittatura. Ma tutto questo — anche se è vero — non basta ancora a definirlo «martire cristiano». Come ebbe a esprimersi san Giovanni Paolo II nella lettera del 30 settembre 1983 indirizzata al cardinale Ersilio Tonini: «Don Minzoni morì “vittima scelta” di una violenza cieca e brutale, ma il senso radicale di quella immolazione supera di gran lunga la semplice volontà di opposizione a un regime oppressivo, e si colloca sul piano della fede cristiana. Fu il suo fascino spirituale, esercitato sulla popolazione, sulle forze del lavoro ed in particolare sui giovani, a provocare l’aggressione […] la morte intravista come approdo di una irrinunciabile difesa della verità e della libertà, assume in lui il senso di un sacrificio estremo “per il trionfo della causa di Cristo”; sacrificio congiunto a quello di Cristo stesso che liberamente si offrì al Padre per affrancare l’uomo da ogni forma di errore e di schiavitù».

E sull’Avvenire si ribadisce: «Se don Minzoni fu oppositore del fascismo “lo fu – disse l’arcivescovo di Ravenna Ersilio Tonini – perché prete, perché pastore d’anime, in virtù della sua fede”. Se fu giustiziato da alcuni ras locali è perché aveva osato contrapporre il modello cristiano di educazione dei giovani a quello del regime appena nato e non aveva avuto alcun timore a criticare i metodi violenti del fascio locale. È convinto che la Chiesa debba aggiornare metodi e contenuti. Osserva la partecipazione di tante persone alle attività della Camera del lavoro: sono anni di grandi fermenti sociali in quel territorio e in tutt’Italia, di scioperi nella fase della prima vera industrializzazione del Paese, ma anche nelle zone rurali, per reclamare migliori condizioni lavorative. E sono gli anni che seguono all’enciclica Rerum novarum che per la prima volta interviene sulle storture del capitalismo e sulle sirene del socialismo, chiamando i cattolici italiani all’impegno sociale. Don Minzoni risponde, simpatizza in età giovanile per Romolo Murri e per le sue idee di democrazia, legge i libri di Toniolo così come, pochi mesi prima di essere ammazzato, si iscrive al Partito popolare di don Sturzo.

Nel Diario, pochi giorni dopo l’arrivo ad Argenta, si può leggere una prima critica alla Chiesa del tempo: «Pensando al nostro clero, certo v’è poco da lusingarsi, che sappia corrispondere alla sua attuale missione. Giovani troppo spinti e indipendenti e quindi unità disgreganti; vecchi intransigenti pessimisti e quindi zavorra troppo pesante; sacerdoti interessati solo dell’oggi e della tavola, questi, mio Dio, sono gli alter Christus! Che devono rinnovare la società!». Un anno dopo scrive della sua disillusione: «Ormai sono intimamente persuaso che vi è del falso non nella religione, ma nella vita religiosa così come si svolge sotto gli occhi dei pastori di anime»; e dopo aver saputo della decisione di molti vescovi di vietare l’uso della bicicletta ai preti suggerisce: «Piuttosto sappiano formare le coscienze in seminario». Se la prende col perbenismo e con i pettegolezzi del clero, ma soprattutto agisce. Non vuole che il sacerdote sia separato dal mondo e che viva seduto su un piedistallo.

Nel maggio 1917 scrive: «Ancora distruzione, ancora stragi, ancora massacri, carneficine e poi nuovi anniversari di sangue e di dolore con sempre dinanzi il fantasma gigantesco di questo lento terribile suicidio di una civiltà atea, immorale, che si dilania da se stessa… A quando il grido evangelico: Domine, salva nos, perimus!». Più volte si legge in queste pagine: «Iddio non vuole la guerra». E insiste: «Ho veduto scene macabre: mucchi di cadaveri rattrappiti esprimenti le ultime convulsioni di una morte violenta; trasformati, mutilati orribilmente putrefatti». In mezzo a questo scenario di distruzione il sacerdote mette in campo la sua pietà e domanda: «Signore, cessate l’immane flagello».

Questo è il grido di Papa Francesco contro la guerra