Carcere: un non luogo senza tempo

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Altre due morti in carcere nei giorni di ferragosto.

Nei giorni nei quali il tempo sembra sospeso tra l’attesa del riposo che deve ancora arrivare o la delusione per ciò che è già trascorso. L’attesa ed il rimpianto accompagnano il tempo della vita è che un continuo trascorrere passando da un già ad un non ancora. Non è così per i carcerati. Nemmeno lo spazio riserva sorprese: è tutto già esplorato appena lo occupi, gli stessi corpi, compreso il tuo, diventano un peso da appoggiare da una parte o l’altra sperando che il cambio di posizione dia un senso alla corporeità. Nel 2023 le morti sono state 100: 47 per suicidio, 53 per altre cause. Le ultime in ordine di tempo sono quelle di due donne: Susan John ed Azzurra Campari che seguono quella di Graziana, 52 anni, uccisasi in cella a giugno. Due donne unite da un comune destino: morte nello stesso carcere di Torino a poche ore l’una dall’altra, per volontà propria anche se con modalità diverse.

Entrambe hanno scelto di non vivere più perché tra la morte ed il carcere non c’è la vita. “Mi metto a pensare alla mia pena… respiro, dormo, bevo, sogno, insomma vivo, ma sarebbe meglio dire che muoio vivendo, dato che, mentre gli altri detenuti vivono per la libertà, gli ergastolani vivono solo per morire” (da “Notte da ergastolano”, Carmelo Musumeci, ottobre 2006, Carcere di Nuoro).

Dal 22 luglio scorso, da quando era arrivata in carcere a Torino, Susan, che scontava una pena di 10 anni per reati contro l’immigrazione clandestina, rifiutava cibo e acqua. Dichiarava la sua innocenza e chiedeva di vedere il figlio, un bimbo di soli quattro anni. Azzurra, detenuta per reati commessi dieci anni fa, si è impiccata. L’ultima frase: «Non ce la faccio più». Come si può morire da suicidi in carcere? “È facile, basta prendere un lenzuolo, tagliarlo, farci delle corde, legarlo alle sbarre… hai la libertà a portata di mano o meglio di collo. Il mondo là fuori per te è morto, ti è rimasto solo l’aldilà” (da “Notte da ergastolano”, Carmelo Musumeci, ottobre 2006, Carcere di Nuoro).

Sulle vite nascoste al mondo dietro le sbarre, scende il silenzio. Non più affetti che, come sappiamo, hanno bisogno di contatto; non più rispetto perché esso si dà ai vivi; non più parola perché i morti non parlano; non più famiglia perché la vita familiare è fatta anche di consuetudine.

La domanda è: “La vita in carcere può ancora essere ritenuta valevole di non essere negata”? Sì, sarebbe e potrebbe essere possibile se le condizioni di vita fossero accettabili, se il sistema, cioè la comunità, si facesse carico dei problemi di natura psichiatrica, se il controllo sui fattori di rischio personali e ambientali, accentuati da un contesto rigorosamente organizzato e fortemente spersonalizzante, fossero a misura di Costituzione. Ma per la politica cambiare l’ordinamento penitenziario non è una priorità e, al di là dei proclami di rito e dell’approccio ideologico di porre mano alle grandi riforme che dovrebbero cambiare il volto del Paese, la riforma del sistema giudiziario, la dignità dei detenuti è solo una nota a piè di pagina. Purtroppo nemmeno la comunità cristiana si sente provocata a “uscire dai pregiudizi, a mettersi in ricerca di coloro che provengono da anni di detenzione, per incontrarli, per ascoltare la loro testimonianza, e spezzare con loro il pane della Parola di Dio”, come da sempre sollecita papa Francesco.