Pinocchio: la favola bella che ieri ci illuse e ancora ci illude

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140 anni dalla prima pubblicazione del volume

Rieccoci al punto di partenza della nostra infanzia che ritorna insieme a Pinocchio il bel libro di Collodi che sfonda il secolo. 140 anni dalla prima pubblicazione del volume che ha segnato la fantasia di generazioni bambini, poi adulti. Allora eccoci a ripescarlo dall’archivio della memoria per coglierne, oggi da adulti, la simbologia che ogni pagina adombra. Per tenerci stretti, Pinocchio è la storia di un pezzo di legno che un povero artigiano del legno sgrossa e modella come un bambino. Sì Geppetto era solo e voleva un bambino. Il desiderio della paternità lo spinge a farselo da sé perché allora non c’era la GPA. Lo modella, lo leviga come fosse una carezza, lo immagina mentre il legno prende forma. Pinocchio appena riesce a balbettare le prime parole, chiede, anzi esige da quel poveruomo che non metteva insieme il pranzo con la cena, da mangiare e subito.  Pinocchio appena costruiti i piedi scappa iniziando così la storia fatta di peripezie determinate dall’impudenza, dalla disubbidienza, dal far conto che Geppetto non fosse altro un elemento della sua vita. E mentre Pinocchio scorrazza per il mondo della libertà senza responsabilità, Geppetto lo aspetta come fa il padre del figliol prodigo. Ed ecco le prime tre similitudini, o simbologie o certezze nascoste dalla metafora: non c’è amore di padre che possa trattenere un figlio; la libertà senza responsabilità porta solo guai, solo stando dentro il ventre della balena, padre e figlio per potersi rincontrare, riscoprire, riavvicinare. Altra simbologia: si diventa adulti e responsabili nell’amore del padre o dei genitori. Scrive Andrea Rauch, autore di Uno, cento mille Pinocchi, «Pinocchio è un burattino scivoloso e ci sfuggirà, sicuramente di mano ancora una volta». Le gradi invenzioni letterarie, infatti, in quanto invenzione assoluta e soprattutto quando non sono contestualizzate in un momento storico assoluto, sfuggono ad una spiegazione univoca ed aprono ampi spazi di interpretazione. Anche  Pinocchio non fugge alla regola. Ma veniamo all’autore, Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzin. Tre anni dopo la prima pubblicazione del suo libro, esce “Cuore” di E. De Amicis che, come scrivono in molti, voleva far crescere la coscienza degli Italiani alle prese col Risorgimento del quale, si sa, se non le élite, capivano poco.  Perché Collodi /Lorenzin proprio grazie a Pinocchio, esprime tutta la sua sfiducia nella bontà innata dell’umanità. Forse proprio questo è il motivo per cui il libro Cuore si è fermato all’Ottocento e Pinocchio, invece, trascorre il tempo.  Il padre single, la scuola che non è mai oggetto di attenzione politica, non c’è la giustizia (Pinocchio viene imprigionato anche se i gendarmi sanno che è a lui che sono state rubate le monete); non c’è la scienza (perché chiamata attorno al letto di Pinocchio malato, non si prende la responsabilità); ci sono i gendarmi anch’essi simbolo di una giustizia punitiva per uscire da ogni impiccio; c’è il gatto e la volpe, la furbizia eretta a sistema; il palazzo dei balocchi, desiderio di un posto, un paese del ben godi. Tutte controfigure che sono alle spalle di un padre ed un figlio che nasce nudo subito avvolto dall’amore del padre. E se nella prima versione del libro, Pinocchio finiva impiccato alla quercia grande, l’intervento della Fatina azzurra segna anche il ritorno alla realtà: Pinocchio diventa bambino. Ma, quanto ci vuole ad acquisire questa umanità che non è performata, ma formata dalle prove, dalle fughe, dai ritorni, dai ‘se’ e dai ‘ma’ e dai ‘mai più’? Eccoci allora alla metafora più grande: la consapevolezza è una presa di coscienza in cui la riabilitazione non viene calata dall’alto, ma conquistata in quanto attorno non ci sono punti fermi, ma una continua mobilità che induce a fidarsi soprattutto a chi ci racconta che ha la bacchetta magica per risolvere tutti i nostri problemi. Rimane la bambina dai capelli turchini ad indicare che, in fondo in fondo, tutti crediamo ai miracoli.