E le stelle stanno a guardare

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Il caso della piccola Indi

“Mia figlia non merita di morire”, queste, le parole del padre della piccola Indi affetta da patologia mitocondriale, sono state pronunciate qualche giorno fa quando ancora il destino della figlia non era deciso. Indi, di 8 mesi, è spirata in un hospice dove era stata trasferita dopo lo spegnimento del ventilatore meccanico che la teneva in vita a seguito del verdetto inappellabile dei tre giudici della corte d’appello di Londra.

Il caso ha diviso commosso le coscienze sebbene la patologia della piccola Indi ne segnasse già il destino. Anche se coperte dal silenzio, ogni giorno negli ospedali, i familiari sono chiamati a condividere la scelta se proseguire le cure o meno dei loro cari per i quali la scienza decreta “il fine vita”, questa di Indi ha sollevato il velo dell’ipocrisia.

Sappiamo, anche per esperienza personale, che il dolore si rannicchia in fondo al nostro cuore e davanti alle decisioni che chiamano in causa l’amore, quando pure deve decretare l’addio alle persone a noi care, sulla coscienza scende il silenzio della nostra impotenza.

Le macchine, cui l’umanità e la scienza hanno affidato le sorti meravigliose di un destino libero dal dolore e dalla morte, sono diventate l’arbitro che taglia il filo della vita che la mitologia greca e latina affidavano al giudizio inappellabile delle Moire, indipendenti anche dal giudizio di Zeus di cui erano figlie.

Cloto reggeva il filo dei giorni da usare nella tela della vita, Lachesi dispensava la sorte avvolgendo il filo al fuso e Atropo tagliava il filo con le forbici quando giungeva il momento della morte.

Ora lo sappiamo: il giudizio dei giudici, anch’esso inappellabile, è quello di Atropo, la novella Moira che chiede obbedienza.