Per ritornare al principio

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Per un rinnovato patto di cittadinanza - Un articolo della Presidente Nazionale Renata Natili Micheli

La nostra Costituzione democratica nei suoi principi fondamentali esprime una tavola dei valori sostanziali prima che rappresentare un “accordo” destinato a presiedere le “regole del gioco” tra i vari “attori in campo” (i diversi poteri dello Stato). Se i valori si considerano tendenzialmente stabili nel tempo e tendenzialmente sottratti alle mediazioni democratico-parlamentari, sulle “regole” previste dai Regolamenti, invece, si compie il processo cosiddetto di “relativizzazione culturale”, secondo il quale tutto è negoziabile, trattabile, disponibile, poiché tutto è considerato … relativo. Lo “zoccolo duro” dei valori, o patrimonio indisponibile (sent. cost. n. 1146/1988), è organizzato intorno a cinque pilastri (democrazia, decentramento, separazione fra i poteri, diritti fondamentali e controllo di costituzionalità) cui si aggiunge una serie di “corollari” (quali può essere considerata la laicità dello Stato, il pluralismo culturale-religioso-politico-economico) e una tutela dei diritti sociali (come il diritto al lavoro e i diritti connessi ai diversi titoli della libertà e dell’uguaglianza). Questa complessa architettura costituzionale che si situa in un preciso momento della storia, è il frutto del farsi, lento e progressivo, “dell’identità nazionale” che vede nella Costituzione il momento topico del pur significativo, complesso percorso della storia più generale nel quale si compie il “divenire costitutivo” di un popolo e di una nazione”.
Nella post-modernità, lo sviluppo di tale “divenire costitutivo”, viene collocato nell’ambito della life politics individuale. Come dire che le questioni politiche, attinenti al progressivo ascendere alla decisione di organizzarsi in una “comunità” di condivisione, è considerato il punto più alto del processo che conduce in primis all’auto-realizzazione. Almeno così si esprime il più irriducibile pensiero liberale, padre del cosiddetto “post secolarismo”, per dirla con Ch. Taylor, che si qualifica per le difficoltà che il processo di auto realizzazione frappone alla conquista del senso dello Stato.
Per alcuni critici del liberismo e del liberalismo, questo è il vulnus più grave di quella ideologia della quale oggi, soprattutto noi italiani, paghiamo le conseguenze per i residui di individualismo ed egoismo che caratterizzano la nostra cittadinanza. E’ in crisi, oggi, non tanto la specifica etica cristiana, quanto appunto la più generale etica pubblica laica o costituzionale. Che unisce in una sintesi non sempre facile da realizzare, la liberaldemocrazia e il personalismo.
In particolare, quest’ultimo è oggi fortemente rimesso in discussione da culture e atteggiamenti che sono individualisti (non personalisti) e libertari (non liberali). Un individualismo assoluto che rompe il patto sociale ed esalta una idea della democrazia per la quale sarebbe impensabile il sacrificio dei diritti soggettivi sull’altare del “bene comune”. Quello che separa e divide, segnando quasi un limite invalicabile tra libertarismo radicale e costituzionalismo, è la concezione della libertà che deve “relazionarsi”, consentendo la sintesi tra uguaglianza, assistenza, solidarietà. Una libertà che si colloca nell’ambito di un contesto sociale complesso, costituito da un articolato sistema di doveri e responsabilità.
La nostra Costituzione ha fatto propria l’idea che il fine della politica é il bene comune o l’interesse generale. Oggi questa nozione, che è quasi un archetipo, è diventata patrimonio di tutti gli schieramenti politici ed entra nei programmi dei partiti anche di quelli più lontani dai valori cristiani. La lontananza è pure significata da un uso approssimativo della “definizione” di bene comune, -come di quella di solidarietà e sussidiarietà-, tanto che nell’immaginario collettivo ciascuno la rimanda ad una diversa specificazione. Non si sottolinea a sufficienza il fatto che nella prospettiva moderna introdurre il “Bene” non economico (Bene comune), come criterio normativo, induce la politica a fare i conti con la propria parzialità. I cristiani, conoscono il valore del sentimento del ”limite”, della “sobrietà”, della “aurea” mediocrità“ che sottopone la politica ad un criterio di giudizio ad essa esterno quale è, appunto, il “bene comune”. Il criterio normativo “esterno” (come significato dalla nozione di “bene comune”) marca la distanza con ogni forma di ideologismo che invece auto-legittima la politica ponendo un principio ad essa interno, quale quello dell’uguaglianza. Dobbiamo fare molto attenzione quando richiamiamo il concetto di “uguaglianza” Infatti se è vero che essa definisce un’idea di uomo e di persona, che specifica una precisa idea dei “diritti umani universali”, è anche vero che se essa, l’uguaglianza -come del resto il principio della “libertà”- non si sostanzia della verità circa l’uomo, diventa soltanto un punto qualificante di un programma politico, una forma di coerenza interna con un ideologia ed un strategia che si auto-legittimano. E, perciò, ci parla della sua assolutezza.
La paradossale conseguenza di questo progetto prometeico, quale è quello che ambisce a realizzare un mondo pressoché perfetto, è la inadeguatezza di ogni progettualità se commisurata al fine. Il presente è emblematico a questo riguardo: un intreccio tra diritti, passioni, interessi trasformati in atti giuridici; una legittimità che si erge sopra il bene del popolo il cui consenso a governare diventa delega a “decidere” padroneggiando tutte le variabili possibili. Ecco perché fare memoria, nei passaggi cruciali significati anche da alcune ricorrenze come quella del 2 giugno, può significare uscire dall’immobilismo di un triste presente, ragionare su un “progetto culturale” nuovo, superare tanto ideologismo di maniera, recuperare il senso di un rinnovato impegno da cristiani.