Il nascere e il morire

0
89

Una riflessione della Presidente nazionale partendo dalle parole del Santo Padre Francesco "sul dolore di chi se ne è andato senza congedo che diventa ferita nel cuore di chi resta" - Roma, 27 marzo 2020

Non è una novità: la vita e la morte, checché se ne dica, non ci appartengono. O almeno non sono nella nostra disponibilità, il momento iniziale e quello supremo dell’allontanamento.

La nostra radicale “vanità”, che significa paradossalmente fragilità, ma anche perfezione, tempo ed eternità, pienezza e caducità, si misura con i sentimenti contrastanti della sfida e della paura. Siamo ricchi e poveri nello stesso tempo, fragili e forti, pronti a gridare il nostro misere mentre tutto in noi aspira alla felicità e a volte, anche se per poco, lambiamo l’eternità.

La nostra realtà di carne continuamente sperimenta la paura in quanto siamo sporti sull’abisso. C’è una bellissima poesia di G. Pascoli (La vertigine) che descrive questa condizione umana che è afferrata alla terra, una sfera in movimento “giù nel vuoto” dell’universo, soltanto dai “brevi piedi”.
L’esistenza umana presa da questa vertigine, sconta la parola o il silenzio di Dio? S. Francesco ebbe un rapporto particolare con la Parola di Dio. Si dirà: “come tutti i santi”. Ed ancora: “Ma sono santi!”. Però vediamo più a fondo. Il rapporto di Francesco con la Parola è “provocatorio” in quanto essa non semplicemente sollecita, denuncia, dichiara: essa piuttosto richiede. Dio si esprime per mezzo del mondo, della storia e dei fratelli più “poveri”: è provocatoria. In sé compiuta, ma aspetta il compimento in noi, aspetta di incarnarsi ancora e sempre.

Il terreno umano, così apparentemente fragile, è quello scelto da Dio per la semina della sua parola. Nella stessa crisi dell’umano si può nascondere una presenza, un’epifania segreta: la rivelazione passa proprio attraverso il disincanto e la crisi della sapienza umana quanto più è vicina alla frontiera del silenzio e della negazione.
Lo sviluppo della vita, a qualsiasi livello e in qualsiasi stagione, mostra nel sottofondo, e oltre la circolarità del succedersi delle stagioni e degli stadi, la linearità teologica che opera nel sottostante della storia a livello trascendente. Così tra curve ed anse, tra rettilinei e salite aspre e discese scoscese, tappe forzate e soste scelte scopriamo che non è mai la stessa acqua che trascorre nel fiume.

I mistici affermano che il “nulla” porta al “tutto”, che se non ci fosse il “mistero” non ci sarebbe la “rivelazione”, se non ci fosse il “deserto” non ci sarebbe l’oasi. Sì, c’è un tempo per ogni cosa, anche per dare ragione del dolore senza che si incarognisca nella disperazione.

Siamo colpiti in questi giorni dalla considerazione che i papà non possono assistere alla nascita del figlio e che i nostri cari colpiti dal Covid19 e in quarantena muoiono lontano da noi nelle silenziose stanze della rianimazione. “Si nasce e si muore soli”… , ma non in solitudine.
“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza irrigare e far germogliare la terra, così ogni mia parola non tornerà a me senza procurare quanto desidero, senza aver compiuto ciò per cui l’avevo mandata” (Is., 55,10-11).
Quella Parola che sicuramente è scesa sul silenzio che stava per coprire una vita, sa placare, prima dell’ultimo sospiro, ogni affanno e ogni fatica, mostra la strada, rivela il senso del vivere e del morire, rivelando lo straripamento della solitudine: cioè la presenza di Dio. Una solitudine traboccante di pienezza.