Dante, ambasciatore della nostra cultura

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VII centenario della morte del Sommo Poeta

Ricorre quest’anno il 700simo anniversario della morte di Dante Alighieri, il “Sommo Poeta” padre della lingua italiana e ambasciatore della nostra cultura nel mondo. Il Poeta viene definito “eterno” in quanto ha osato “nel mezzo del cammin di nostra vita”, scendere nelle profondità oscure del peccato per poter, purificato dalle fiamme dell’amore di Dio, salire a contemplare “la luce suprema” che contiene “nel suo profondo”, “ciò che per l’universo si squaderna” (Paradiso, Canto XXXIII, vv 85-90).

Le celebrazioni spesso sono finalizzate a recuperare ciò che è stato, ma non è più tanto che rivelano nostalgia la quale, come canta la coppia più famosa d’Italia, può essere definita “canaglia”. Infatti, la nostalgia tenta un recupero impossibile e, nello stesso tempo, rivelando la vanità degli sforzi, ci fa sfuggire alle difficoltà del presente mostrando la inanità del nostro impegno.

Dante è il nostro Poeta e nello stesso tempo il Poeta dell’umanità in quanto, forse meglio di chiunque altri che pure si sono cimentati ha rivelato una conoscenza vera dell’umano prima degli studi psicoanalitici di Freud e prima di tante indagini sociologiche o antropologiche le quali più spesso ricalcano sentieri già battuti, per dirli con parole nuove.

Dante allora. Egli dispensa il proprio sapere a chi non sa, in virtù del principio aristotelico della naturale socievolezza dell’uomo che esprime ricorrendo al concetto ciceroniano (e dunque aristotelico) di amicizia in base al quale chi possiede la ricchezza del sapere la dispensa «a li veri poveri» perché «ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico» (Convivio I, 8). Dante cerca, insegue, vuole afferrare e tenere ben ferma la felicità intesa come beatitudine somma che deriva certamente dal sapere, certamente dalla disposizione dell’anima all’equilibrio, certamente dal distacco delle passioni come ben suggeriva Seneca, ma, soprattutto consiste nel «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Epistole XIII, 39).

Si tratta di un’esperienza eccezionale, riservata alla dimensione mistica che è l’ultimo gradino dell’esperienza intima dopo quella attiva e speculativa, possibile soltanto a chi aspira alla perfezione futura i cui barlumi, che accendono e spingono, sono già percepibili nell’esperienza dell’amore umano tanto che Beatrice può dire «I’ son Beatrice che ti faccio andare;/vegno del loco ove tornar disio;/amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inferno,70-72).